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VOGHERA, CHAT DELLA VERGOGNA: INDAGINI IN FASE DI CONCLUSIONE, DI CHI E’ LA “MANINA” CHE LE HA DIFFUSE?
Pubblicato
3 anni fa-
di
Redazione
di Emanuele Bottiroli
Proseguono le indagini per trovare e sanzionare nei termini di legge chi ha diffuso le ribattezzate “chat della vergogna” di Voghera, ovvero le conversazioni private della giunta comunale di Paola Garlaschelli, trapelate sui social a settembre 2021 poco dopo il licenziamento dalla squadra di governo della città dell’allora assessore Francesca Miracca (Lega), indagata per corruzione elettorale e protagonista di un caso di cronaca nazionale sul quotidiano Il Foglio con virgolettati dal contenuto esplosivo.

La sindaca di Voghera aveva risposto alle reiterate pubblicazioni di conversazioni private a mezzo social con grande fermezza: “Qualcuno – aveva spiegato Garlaschelli – con metodi che non ho problemi a definire squallidi e penosi prosegue nel tentativo di destabilizzare la nostra Amministrazione. A tutto, ovviamente, c’è un limite: per questo abbiamo già avviato le dovute iniziative nelle sedi opportune”.

Garlaschelli aveva sottolineato: “E’ un metodo lontanissimo dal nostro modo di fare, è un terreno di scontro sul quale non vogliamo nemmeno scendere, per decenza e senso di responsabilità. Arriviamo a dire che ci dispiace, perché chi si muove in questo modo avrebbe evidentemente bisogno di un aiuto e di un supporto in un momento di difficoltà e fragilità personale”.
Il sindaco di Voghera, senza citare nessuno, aveva però concluso la sua riflessione con un messaggio che non lasciava spazio a fraintendimenti: “E’ il momento della serietà e della concretezza, non c’è più spazio per diatribe attraverso mezzi e mezzucci che non fanno il bene di Voghera. Vogliamo governare la città, non inseguire becere ritorsioni da parte di chi non accetta che un percorso amministrativo possa concludersi anzitempo. Non sentiamo alcun bisogno di ribadire la nostra assoluta lontananza da qualsiasi forma di razzismo, intolleranza o violenza. Sono valori che ci appartengono da sempre, sono valori che ci accompagnano nel lavoro che stiamo portando avanti per una città inclusiva, accogliente, attenta ai bisogni delle persone più fragili. Chi si muove con questi metodi – aveva concluso Garlaschelli – risponderà delle proprie responsabilità nelle sedi competenti. La nostra responsabilità è lavorare per Voghera e per i vogheresi”.
Ora le indagini sono in avanzata fase e a breve non sono esclusi colpi di scena. Inviare e condividere screenshot su WhatsApp con conversazioni private è un comportamento molto diffuso. Eppure l’azione, talvolta compiuta con leggerezza, può costituire un vero e proprio reato, in qualche caso più d’uno. Fare uno screenshot e inviarlo a un proprio contatto oppure condividerlo in una chat di gruppo (peggio ancora pubblicarlo su Facebook, Instagram o stamparlo e diffonderlo su carta) può arrecare un danno alla reputazione e all’onore altrui, oltre a violare il diritto alla riservatezza, tutti principi tutelati a livello costituzionale.
La denuncia e le possibili conseguenze penali sussistono se la condotta in questione integra gli estremi della diffamazione o dell’illecito trattamento dei dati personali. In questi casi si rischia la reclusione da 6 mesi fino a un anno e 6 mesi, come previsto all’articolo 167 del Codice della privacy.
La legge prevede che non si possano pubblicare, diffondere e condividere le conversazioni altrui con lo scopo di arrecare un danno all’immagine o alla reputazione delle persone coinvolte. Affinché la comunicazione a terzi di una conversazione riservata possa costituire reato è necessario che vada a ledere uno dei seguenti diritti: la privacy, che è violata quando si comunicano informazioni personali altrui (ad esempio le condizioni di salute o l’orientamento sessuale);
la reputazione, che è violata quando la comunicazione della chat lede l’immagine, il decoro e la dignità di una persona.
La condotta prevista all’articolo 167 del Codice della privacy (Trattamento illecito di dati) si verificherà quindi soltanto in presenza d’informazioni strettamente riservate; volontà di arrecare un danno o trarre un ingiusto profitto per sé o per altri. La pubblicazione di uno screenshot può rappresentare una violazione della riservatezza anche quando il contenuto riveli aspetti della vita privata dell’utente o di suoi familiari, che non avrebbe mai esternato in pubblico.
È dunque possibile inviare e condividere con terzi su WhatsApp screenshot, foto, immagini e video, purché non siano in grado di arrecare (direttamente o indirettamente) un danno alla riservatezza, all’onore e alla reputazione dell’interessato. Altrimenti, oltre alla violazione della privacy, potrebbe scattare il più grave reato di diffamazione aggravata dal mezzo tecnologico.
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Si chiamava “Mia moglie” ed era diventato un raccoglitore di immagini intime condivise senza consenso. Il gruppo Facebook, nato nel 2019 e arrivato a 32mila iscritti, è stato chiuso dopo le migliaia di segnalazioni giunte alla polizia postale. Tra gli iscritti, più di un centinaio risultavano residenti nel Pavese, con presenze anche a Voghera e Vigevano.
Gli utenti caricavano foto di compagne, mogli, amiche o sconosciute, trasformandole in “trofei” da commentare con battute sessualmente esplicite. Un meccanismo basato sull’esibizione e sulla morbosità, che ha portato all’uscita in massa degli iscritti prima della chiusura definitiva.
Alcuni hanno scelto di infiltrarsi per documentare il fenomeno. Tra loro la stand-up comedian Laura Formenti, molto seguita sui social, che dopo aver osservato i contenuti ha parlato di «morbosità diffusa» e di un pericoloso senso di impunità online, simile a quello che alimenta casi di revenge porn.
Per Formenti, il nodo resta la responsabilità collettiva: «Non basta dire “io non sono come loro”. Se gli uomini non intervengono, anche senza essere complici, finiscono per alimentare il silenzio e un sistema malato».
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