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L’insostenibile leggerezza di essere Orietta – La Berti festeggia 55++ anni di carriera

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Unica, camaleontica, eterna, sono tante le parole con le quali potremmo descrivere Orietta Berti, ma personalmente mi limiterei nel definirla ”leggera” e non di sicuro inteso come ”priva” di contenuti, anzi. Essere artisti ”leggeri”, non prendersi troppo sul serio, è proprio quella base di autenticità che ha trasformato Orietta nell’icona senza tempo amata da tutti, grandi e piccini. Non vi è da stupirsi dunque se anche i bambini al di sopra dei 4 anni ballano e cantano ancora ”Mille”, il tormentone che lo scorso anno l’ha incoronata regina delle classifiche, perché Orietta con il suo carattere sincero, autentico e genuino, piace proprio a chiunque.

Nata artisticamente negli anni d’oro ”animaleschi” delle regine della musica, fra tigri (Mina), aquile (Zanicchi) e pantere (Milva), Orietta non è mai stata seconda a nessuna di esse ed in 55 anni di carriera (in realtà 57, il ++ nel disco sta ad indicare i due anni di in cui il nuovo album non ha visto la pubblicazione causa pandemia) è stata in grado di vendere milioni di dischi e regalarci hit che ancora oggi sono un cult come ”Tu sei quello”, ”Io ti darò di più”, ”Quando l’amore diventa poesia” ma anche colonne sonore generazionali vedi ”Via dei ciclamini” e ”Finche la barca va”. Tra un Festival di Sanremo e l’altro, la Berti è stata capace anche di stupire, basti pensare al singolo ”Futuro”, presentato a Saremo ’86 ed oggi più attuale che mai di fronte al clima della guerra che stiamo vivendo, regalandoci look iconici e momenti televisivi unici.

Reiventarsi e farsi amare dal pubblico è stata poi la chiave del suo successo, anche negli anni in cui la musica era sempre presente nella sua vita ma in modo meno intenso, Orietta diventa un volto amato e popolare in Tv, è l’amica della porta accanto con la quale confidarsi, l’ospite con cui dialogare piacevolmente. Così, tra un programma e l’altro, tournée in giro per il mondo, il collezionismo di oggetti stravaganti ed ovviamente l’immancabile famiglia sempre con lei (il marito Osvaldo con i figli Omar e Otis e le nipoti Olivia e Ottavia), Orietta non conosce il termine di ”pensione”. Un bene per tutti noi, dato che prima grazie a Fabio Fazio, che la vuole ospite fissa nei suoi show di intrattenimento e poi grazie al manager Pasquale Mammaro che nel 2021 insiste per riportarla al Festival di Sanremo dove mancava da 20 anni, Orietta riconquista ancora una volta tutti.

Ed eccoci così arrivati ad oggi, dopo una hit valsa svariati dischi di platino, milioni di visualizzazioni e ascolti digitali e la capacità di far parlare di sé sempre in bene, Orietta si e ci regala il cofanetto ”La mia vita è un film – 55++ anni di musica”, un tassello imperdibile della sua carriera musicale, distribuito in fisico da Self Distribuzione e in digitale da Believe Digital Music Italia, composto da 6 CD che racchiudono i vari capitoli della sua carriera artistica, dagli esordi agli anni recenti. La cover del cofanetto (nella foto per gentile concessione di Mauro Caldera per 361 Comunicazione), ideata dal designer Nero blk, vuole rendere omaggio a Orietta ritraendola come la regina Anna D’Asburgo nella pittura del 1622 di Pieter Paul Rubens e, a quell’atmosfera di graphic-art ideata proprio per la cover di “Mille” (con Fedez e Achille Lauro) dall’artista Francesco Vezzoli.

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130 brani che sono la storia e il costume della nostra musica, con rimasterizzazioni e nuove versioni uniche come per la delicata ”Dietro un grande amore”, canzone scritta per Orietta dal compianto paroliere e conduttore televisivo Paolo Limiti e musicata dalla collega e amica Giovanna (Giovanna Nocetti, cantante e produttrice discografica). Questa canzone, una delle ultime scritte da Paolo, viene riproposta in una versione inedita LIVE, che Orietta ha cantato al matrimonio di Leandro Manuel Emede e Nicolò Cerioni (SugarKane, Videoproducer e Stylist di Achille Lauro e della stessa Orietta) che si sono sposati a Milano. Orietta ha voluto inserire questa “SugarKane Wedding version“ per l’unicità di quell’interpretazione: sulle note dell’orchestra Tango Spleen quel giorno viene invitata sul palco interpretando il brano con grandissima empatia regalando una straordinaria ed inaspettata emozione al pubblico. Ecco, l’insostenibile leggerezza di essere Orietta.

Alessandro Paola

Immagine promozionale de ”La mia vita è un film – 55++ anni di musica”, per gentile concessione di Mauro Caldera (361 Comunicazione)

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Ieri sera la città di Voghera ha risposto con entusiasmo all’invito di Libreria Ticinum in Sala Zonca per la presentazione-dibattito con Bruno Maida, nell’ambito di VogherAutori, con il patrocinio del Comune di Voghera. A presentare l’ospite e il libro "Sciuscià" edito da Einaudi sono state con grande garbo ed efficacia Alessandra Bazardi (agente letteraria) e Federica Scarrione (docente dell’IIS Galilei). Tra il pubblico molti esponenti del mondo politico, del giornalismo, della scuola, delle professioni e tanti amanti della lettura. Si è parlato di passato ma anche di sfide che riguardano l’infanzia e l’integrazione ancora oggi, in un mondo forse più cambiato nelle parole che nei fatti, con tante convenzioni che restano lettera morta e tante iniziative che spesso non arrivano a quel risultato di far sentire pienamente parte di una comunità.
L’autore ha invitato ad abbassare la telecamera, come i grandi registi che hanno raccontato gli anni del dopoguerra, per cambiare il punto di vista sulla condizione di tanti minori che chiedono di essere guardati come individui e non come fossero anche loro parti di un sistema di burocrazie.
«Sciuscià» è una delle parole italiane piú conosciute al mondo. Resa celebre dall’omonimo film di Vittorio De Sica è arrivata a incarnare e rappresentare la condizione dell’infanzia povera e abbandonata nell’Italia nel dopoguerra, forse piú di ogni altro aspetto sociale ed economico. Dalla liberazione di Napoli nel 1943 fino alla fine del decennio, i bambini e i ragazzi di strada sono il simbolo del contrasto tra un’infanzia come immagine positiva del futuro e un’infanzia “pericolosa” che vive ai margini della società e spesso è costretta a delinquere. Nascono moltissime iniziative assistenziali, religiose e laiche, per nutrirli, vestirli, educarli. Gli sciuscià diventano cosí protagonisti di un progetto di salvezza dell’infanzia e le loro storie sono raccontate dal cinema, dalla letteratura, dalla fotografia, dai diari e dalle memorie.
Le pagine che si leggono in questo libro raccontano le vicende di quei bambini e ragazzi di strada chiamati «sciuscià». Non è quindi in senso stretto la storia dei lustrascarpe che nei primi anni del dopoguerra popolano le grandi città italiane, in particolare Roma e Napoli, invase dai militari alleati a cui di fatto si deve il nome. Non è neanche la storia del film di Vittorio De Sica, vincitore del premio Oscar come migliore pellicola straniera nel 1948, che ha reso la parola «sciuscià» famosa in tutto il mondo. Eppure questo libro è anche la storia dei lustrascarpe e del film di De Sica, per tre motivi. Il primo è politico e culturale. L’intreccio di creatività e avversità di cui parla la motivazione dell’Oscar al film sembra dipingere il tradizionale stereotipo dell’italiano che se la cava in qualche modo, si arrangia e alla fine o sparisce nel gorgo luciferino della miseria o, baciato dalla fortuna, conquista il successo. Il secondo motivo è che «sciuscià» è una sineddoche. I lustrascarpe sono la parte visibile di una massa di bambini e ragazzi orfani, poveri e profughi che vivono e sopravvivono nelle strade delle città italiane del dopoguerra. Il terzo motivo è il valore per cosí dire universale, nel tempo e nello spazio, dello sciuscià. La sua figura di bambino è quella che aggruma l’idea di tutte le infanzie vissute ai margini della società nel corso del Novecento: vittime dei cambiamenti che investono le comunità dopo guerre e catastrofi oppure espressioni icastiche dell’umanità dimenticata e offesa a ogni latitudine.

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