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Economia

UniCredit estende la presenza al Sud, apre a Maiori e investe a Capri

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ROMA (ITALPRESS) – UniCredit inaugura l’8 e il 9 luglio 2025 le filiali a Capri e Maiori, “rafforzando il proprio impegno a fianco delle comunità locali e delle imprese che investono nel futuro del territorio”, si legge in una nota. “Le nuove aperture si inseriscono in un piano strategico più ampio di rilancio del radicamento territoriale e della prossimità bancaria nei luoghi ad alta vocazione economica, turistica e culturale, con particolare attenzione alle zone che mostrano una dinamica imprenditoriale in espansione e una domanda crescente di consulenza specializzata – spiega UniCredit -. Secondo l’ultimo aggiornamento di Banca d’Italia (marzo 2025), negli ultimi cinque anni in Italia sono stati chiusi oltre 4 mila sportelli bancari, con una riduzione del 17% della rete fisica complessiva. In particolare, il Sud ha perso circa il 22% dei suoi sportelli, con punte del 30% in alcune aree interne e costiere. Dal 2021 UniCredit ha ristrutturato l’87% delle proprie filiali presenti in Italia, con l’obiettivo di arrivare al 100% entro il 2026 e con un investimento complessivo di oltre 200 milioni di euro”.

A fronte di questa contrazione, UniCredit conferma la propria presenza attiva con una rete di oltre 200 strutture nel Sud Italia (al netto della Sicilia), “scegliendo di consolidare la propria presenza fisica nel Mezzogiorno e affermandosi come uno dei principali operatori bancari a sostegno dello sviluppo inclusivo e territoriale – prosegue la nota -. UniCredit agisce da outlier positivo inaugurando filiali con posizionamenti strategici e modelli innovativi. La filiale di Capri in via Roma 77 situata a pochi passi dalla Piazzetta, sarà attiva tutto l’anno e offrirà servizi bancari personalizzati a cittadini, professionisti, operatori del turismo e del commercio. Sarà anche un punto di riferimento consulenziale per imprenditori che intendono innovare o internazionalizzare. La filiale di Maiori, in via Nuova Chiunzi n 126 nel cuore della Costiera Amalfitana, si rivolgerà in particolare alle PMI, alle aziende agricole e di artigianato di qualità e alle strutture ricettive, con strumenti digitali e credito mirato a supporto della transizione energetica e ambientale. Entrambe le sedi sono concepite secondo il nuovo modello di filiali UniCredit, ad elevata digitalizzazione, presenza di relationship manager dedicati, apertura prolungata e accessibilità estesa anche nei periodi di alta stagione”.

“UniCredit continua ad investire con responsabilità sul territorio in particolare nel Sud Italia, uno dei motori di crescita del nostro Paese. Con le filiali di Capri e Maiori rafforziamo la nostra vicinanza ai territori ad alto potenziale economico e culturale. Vogliamo essere presenti, fisicamente e strategicamente dove le imprese investono, dove le comunità chiedono consulenza e dove l’innovazione incontra la tradizione. Aprire nuove filiali è una scelta che conferma la nostra vicinanza al cliente e alle comunità in cui operiamo. Il nostro obiettivo è di continuare a servire i clienti al meglio e lo facciamo investendo sia nelle infrastrutture sia nelle persone a loro dedicate. Nel biennio 2024-2025, inoltre, abbiamo previsto oltre 2200 nuove assunzioni in Italia”, dichiara Remo Taricani, Deputy Head of Italy di UniCredit.

– foto ufficio stampa Unicredit –

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Economia

Pensioni, Mastrapasqua “Lasciamo il Tfr nelle tasche dei lavoratori”

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ROMA (ITALPRESS) – “Lasciare il Tfr nelle tasche dei lavoratori”. Questa la proposta lanciata dall’ex presidente dell’Inps, Antonio Mastrapasqua, dalle colonne de “Il Giornale”.

“Un’idea, in realtà una idea di quindici anni fa – spiega -. Allora l’avevamo formulata quando ero presidente dell’Inps, d’accordo con il Governo e con qualche rappresentante sindacale. Era il 2010. Poi scoppiò la tempesta del 2011 e non se ne fece nulla”. E oggi? “Rispetto ad allora il quadro in cui parlare di Tfr, oggi, non è molto cambiato. C’è in più la consapevolezza di una crisi demografica che è destinata a modificare tutto il welfare del Paese. E forse le solite azioni sulle pensioni non sono sufficienti. Anche se il Governo annuncia per autunno qualche intervento proprio sul Tfr, questa volta da lasciare all’Inps per aggiustare la vecchia proposta della quota 103. Credo che tra quote e salvaguardie continuiamo a fornire incertezza ai lavoratori che guardano alla pensione. Perché non lasciarli liberi di progettare il loro futuro liberando le risorse del Tfr? D’altronde sono soldi loro”.

Il pericolo, però, è che possa saltare il banco della previdenza complementare: “E perché? C’è l’abitudine di pensare ai lavoratori come soggetti da educare, prima ancora da proteggere. Sentiamo ripetere sempre che l’educazione finanziaria non è molto sviluppata nel nostro Paese. Può darsi, ma non è mettendo sotto tutela i cittadini che si può cambiare. Il mercato offre tante soluzioni, tocca al mercato, cioè alle compagnie di assicurazione e ai Fondi convincere i lavoratori a investire su progetti di risparmio previdenziale seri e competitivi”. Oggi, però, i Fondi pensione non sono entrati nelle abitudini degli italiani. “Ma forse non è colpa degli italiani. I rendimenti dei Fondi pensione non sono molto migliori del Tfr o dei titoli di debito pubblico. La recente indagine della Commissione bicamerale per gli enti previdenziali ha aggiunto analisi a quelle offerte da Covip: e tutto conferma prestazioni che non sembrano essere convincenti. C’è qualcosa che si può fare di più e meglio? E’ il momento di rilanciare il rapporto pubblico-privato”. Per Mastrapasqua “non c’è alternativa. Il welfare del futuro si deve fondare su questa collaborazione, stretta e trasparente. Al centro ci devono essere i cittadini e i lavoratori, liberi di scegliere, sulla base delle loro risorse. Il Tfr è una loro risorsa. Libertà e liberismo non sono compatibili con il paternalismo dello Stato. Una mensilità all’anno, in più, da gestire direttamente potrebbe essere un buon inizio. Quindici anni fa era una proposta istituzionale; oggi è l’idea di un libero cittadino, che ha frequentato un po’ questi temi”, conclude.

– foto d’archivio IPA Agency –

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Economia

Ex Ilva, Benedetti (Abs-Danieli) “Acciaio green chiave per transizione”

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ROMA (ITALPRESS) – “Sull’Ilva siamo pronti a fare la nostra parte: il futuro è dell’acciaio green, frutto di tecnologie e innovazione su cui la Danieli investe da oltre 15 anni”. Così al Messaggero Camilla Benedetti, presidente di Abs Acciaierie (divisione acciaio del Gruppo Danieli). “Il sistema Paese – aggiunge – deve credere nella siderurgia come motore della transizione, mettendo in campo investimenti e una visione capace di coniugare tradizione e sostenibilità”. Benedetti indica il modello Piombino – dove Danieli è sia fornitore tecnologico che azionista con il 25%, al fianco di Mef, Sace e Invitalia – come esempio di progetto strategico replicabile. Cita anche l’esperienza internazionale con Ssab, l’”Ilva svedese”, che ha affidato al gruppo un maxi-contratto da 1 miliardo di euro per la realizzazione a Luleà di un impianto a zero emissioni, alimentato da idrogeno verde e rottame riciclato, capace di ridurre del 7% le emissioni complessive della Svezia.
“Senza acciaio non c’è eolico, non c’è fotovoltaico, non c’è mobilità elettrica – avverte -. L’Italia ha oggi l’opportunità di guidare l’innovazione europea, rafforzando una filiera strategica per la transizione energetica”. Un percorso che, secondo Benedetti, passa da “tecnologia, responsabilità e investimenti in ricerca, capitale umano ed economia circolare”. ABS, ricorda la presidente, ha destinato nel 2024 oltre 41 milioni di euro all’innovazione, pari al 54,3% dell’Ebitda: “Il nostro impianto QWR – sottolinea – è un esempio concreto di efficienza energetica, zero sprechi e qualità avanzata. Così coniughiamo sostenibilità, digitalizzazione e sicurezza”. “Occorre superare la gestione emergenziale e avere una strategia industriale di lungo periodo – conclude -. L’industria siderurgica non è un problema, ma parte della soluzione: può essere il cuore della transizione energetica italiana ed europea”.

– Foto ufficio stampa ABS –

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Economia

Crolla il numero di artigiani, in dieci anni calo del 22%

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ROMA (ITALPRESS) – Negli ultimi 10 anni il numero degli artigiani presenti in Italia ha subito un crollo verticale di quasi 400mila unità. Se nel 2014 ne contavamo 1,77 milioni, l’anno scorso la platea è scesa a 1,37 milioni (-22 per cento). In due lustri quasi un artigiano su quattro ha gettato la spugna. Anche nell’ultimo anno la contrazione è stata importante: tra il 2024 e il 2023 il numero è sceso di 72mila unità (-5 per cento).

La riduzione ha interessato tutte le regioni d’Italia, nessuna esclusa. Nell’ultimo decennio le aree più colpite da questa “emorragia” sono state le Marche (-28,1 per cento), l’Umbria (-26,9), l’Abruzzo (- 26,8) e il Piemonte (-26). Il Mezzogiorno, invece, è stata la ripartizione geografica che ha subito le “perdite” più contenute.

Grazie, in particolare, agli investimenti nelle opere pubbliche legati al PNRR e agli effetti positivi derivanti dal Superbonus 110 per cento, il comparto casa ha “frenato” la caduta del numero complessivo degli artigiani di questa ripartizione geografica. La denuncia è sollevata dall’Ufficio studi della CGIA che ha elaborato i dati dell’INPS e, per quanto concerne il numero delle imprese artigiane attive, di Infocamere/Movimprese.

Già oggi quando si rompe una tapparella, il rubinetto del bagno perde acqua o dobbiamo sostituire l’antenna della Tv trovare un professionista del settore è molto difficile, figuriamoci fra qualche anno. A seguito del progressivo invecchiamento della popolazione artigiana e la corrispondente contrazione dei giovani che si avvicinano a questi mestieri, anche a seguito del calo demografico, è molto probabile che entro un decennio reperire sul mercato un idraulico, un fabbro, un elettricista o un serramentista in grado di eseguire un intervento di riparazione/manutenzione presso la nostra abitazione o nel luogo dove lavoriamo sarà un’operazione difficilissima.

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Va comunque segnalato che questa riduzione in parte è anche riconducibile al processo di aggregazione/acquisizione che ha interessato alcuni settori dopo le grandi crisi 2008/2009, 2012/2013 e 2020/2021. Purtroppo, questa “spinta” verso l’unione aziendale ha compresso la platea degli artigiani, ma ha contribuito positivamente ad aumentare la dimensione media delle imprese, spingendo all’insù anche la produttività di molti comparti; in particolare, del trasporto merci, del metalmeccanico, degli installatori impianti e della moda.

Negli ultimi decenni tante professioni ad alta intensità manuale hanno subito una svalutazione culturale; questo processo ha allontanato molti ragazzi dal mondo dell’artigianato. Il tratto del profondo cambiamento avvenuto, ad esempio, è riscontrabile dal risultato che emerge dalla comparazione tra il numero di avvocati e di idraulici presenti nel nostro Paese. Se i primi sono poco più di 233mila unità, si stima che i secondi siano “solo” 165mila.

E’ evidente che la mancanza di tante figure professionali di natura tecnica siano imputabili a tante criticità. Secondo quanto riferisce la Cgia, le principali sono: lo scarso interesse che molti giovani hanno nei confronti del lavoro manuale; la mancata programmazione formativa verificatasi in tante regioni del nostro Paese e l’incapacità di migliorare/elevare la qualità dell’orientamento scolastico che, purtroppo, è rimasto ancorato a vecchie logiche novecentesche.

Ovvero, chi al termine delle scuole medie inferiori ha dimostrato buone capacità di apprendimento è “consigliato” dal corpo docente a iscriversi a un liceo. Chi, invece, fatica a stare sui libri viene “invitato” a intraprendere un percorso di natura tecnica o, meglio ancora, professionale; creando, di fatto, studenti di serie a, di serie b e, in molti casi, anche di serie c.

L’invecchiamento progressivo della popolazione artigiana, provocato in particolar modo anche da un insufficiente ricambio generazionale, la feroce concorrenza esercitata nei decenni scorsi dalla grande distribuzione e in questi ultimi anni in particolare dal commercio elettronico, il peso della burocrazia, il boom del costo degli affitti e delle tasse nazionali/locali hanno costretto molti artigiani ad alzare bandiera bianca.

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Una parte della “responsabilità”, comunque, è ascrivibile anche ai consumatori che in questi ultimi tempi hanno cambiato radicalmente il modo di fare gli acquisti, sposando la cultura dell’usa e getta, preferendo il prodotto fatto in serie e consegnato a domicilio. La calzatura, il vestito o il mobile fatto su misura sono ormai un vecchio ricordo; il prodotto realizzato a mano è stato scalzato dall’acquisto scelto sul catalogo on-line o preso dallo scaffale di un grande magazzino.

Negli ultimi 45 anni c’è stata una svalutazione culturale spaventosa del lavoro manuale. L’artigianato è stato “dipinto” come un mondo residuale, destinato al declino e per riguadagnare il ruolo che gli compete ha bisogno di robusti investimenti nell’orientamento scolastico e nell’alternanza tra la scuola e il lavoro, rimettendo al centro del progetto formativo gli istituti professionali che in passato sono stati determinanti nel favorire lo sviluppo economico del Paese.

Oggi, invece, sono percepiti dall’opinione pubblica come scuole di serie b e in certi casi addirittura di serie c. Per alcuni, infatti, rappresentano una soluzione per parcheggiare per qualche anno i ragazzi che non hanno una grande predisposizione allo studio. Per altri costituiscono l’ultima chance per consentire a quegli alunni che provengono da insuccessi scolastici, maturati nei licei o nelle scuole tecniche, di conseguire un diploma di scuola media superiore. E nonostante la crisi e i problemi generali che attanagliano l’artigianato, non sono pochi gli imprenditori di questo settore che da tempo segnalano la difficoltà a trovare personale disposto ad avvicinarsi a questo mondo.

Non tutti i settori artigiani hanno subito la crisi. Quelli del benessere e dell’informatica presentano dati in controtendenza. Nel primo, ad esempio, si continua a registrare un costante aumento degli acconciatori, degli estetisti e dei tatuatori. Nel secondo, invece, sono in decisa espansione i sistemisti, gli addetti al web marketing, i video maker e gli esperti in social media. Va altrettanto bene anche il comparto dell’alimentare, con risultati significativamente positivi per le gelaterie, le gastronomie e le pizzerie per asporto ubicate, in particolare, nelle città ad alta vocazione turistica.

I piccoli negozi e le botteghe artigiane giocano un ruolo fondamentale nei centri storici, nelle piccole comunità e nei borghi, contribuendo all’identità culturale, all’economia locale e al mantenimento del patrimonio storico.

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Queste attività, spesso situate in edifici storici, arricchiscono l’ambiente urbano con la loro presenza e le loro creazioni, attirando turisti e residenti interessati alla tradizione e all’artigianato di qualità. Va ricordato, infine, che la decisa riduzione del numero degli abitanti che da qualche decennio sta interessando molte aree del Paese (territori di montagna, zone collinari, paesi di provincia, etc.), ha causato una forte contrazione del numero dei negozi/botteghe artigiane.

Un fenomeno molto complesso che ha deteriorato il tessuto urbano e la qualità della vita di molti contesti territoriali. Per questo sarebbe opportuno introdurre per legge un “reddito di gestione delle botteghe commerciali e artigiane” per chi (giovane o meno) gestisce o apre una attività, compatibile con la residenzialità, nei centri minori (fino a 10.000 abitanti).

A quarant’anni dall’entrata in vigore della legge quadro n° 443, il Parlamento ha avviato da alcuni mesi un percorso di riforma dell’artigianato destinata a superare i vincoli normativi che limitano l’attività di oltre 1,2 milioni di imprese artigiane presenti nel Paese. Tra le novità previste, vi è la possibilità, per quelle che operano nel settore alimentare, di vendere direttamente al pubblico i prodotti di propria produzione. Altro aspetto significativo riguarda la maggiore flessibilità nella costituzione dei consorzi, che potranno includere anche le Pmi non artigiane. Di rilievo è inoltre la proposta di istituire un fondo biennale da 100 milioni di euro per facilitare l’accesso al credito, con il supporto di Confidi e della nuova Artigiancassa. Infine, l’innalzamento del tetto occupazionale da 18 a 49 addetti consentirebbe all’Italia di allinearsi alle normative sull’artigianato presenti in gran parte dei 27 Paesi dell’UE.

– Foto IPA Agency –

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